martedì 4 settembre 2012

La Lega e il Pdl sono in crisi. Ma la pressione populista resta incombente…

Pubblichiamo l'articolo "Una bussola umanistica" di Ferruccio Capelli per Tamtàm Democratico

1 – È durata all’incirca un anno la lunga agonia dei populismi leghista e berlusconiano, ovvero delle due formazioni che per vent’anni hanno dato il segno alla vita politica italiana: scalzate dal governo a seguito della drammatica crisi finanziaria dell’agosto 2011, alcuni mesi dopo, alle elezioni amministrative della primavera 2012, hanno subito un autentico tracollo elettorale. Entrambe non hanno retto all’inasprirsi della crisi. Nel drammatico passaggio dello scorso agosto Lega e Pdl sono state paralizzate proprio dalle promesse cui erano solite abbandonarsi. Il governo Berlusconi – Bossi è caduto perché impossibilitato a prendere misure urgenti di contenimento del bilancio pubblico: il rifiuto della Lega a ogni intervento sulle pensioni e l’impossibilità del Pdl di ripristinare la tassazione sulla casa hanno reso inevitabile la caduta del governo. Contemporaneamente i due leader, padri padroni dei rispettivi partiti, indeboliti politicamente dalla crisi del governo, non sono riusciti a reggere due bufere mediatico – giudiziarie parallele: Berlusconi ha pagato il prezzo del bunga – bunga e della sua corte dei miracoli mentre Bossi è stato travolto dal Trota, da Belsito e dalla Tanzania. Leghismo e berlusconismo sono accomunati in una medesima parabola politica. Essi si erano affacciati quasi in concomitanza sulla scena politica italiana, assieme hanno poi raggiunto il massimo dell’influenza e del potere e, sempre assieme, hanno ora imboccato la strada del declino, per altro assai rapido. Emersi entrambi nella crisi politica dei primi anni Novanta toccarono l’apice della loro influenza il decennio successivo quando, accantonata la competizione reciproca, siglarono un patto di ferro con il quale garantirono la lunga durata dei governi berlusconiani. La loro ascesa vertiginosa e il loro lungo successo erano dovuti all’abilità e alla determinazione con la quale hanno usato alcuni cliché populisti: l’identificazione dell’elettorato con il leader, la contrapposizione tra il “loro” popolo e gli altri cittadini, la critica aggressiva al resto del sistema politico. Bossi e Berlusconi sono stati infatti due leader carismatici, padri - padroni dei rispettivi partiti; entrambi hanno agitato il loro elettorato contro altri cittadini, fossero essi i meridionali o i comunisti ed ambedue hanno cavalcato la critica contro il vecchio sistema politico, contro Roma – ladrona e le estenuanti mediazioni della politica. Questi punti di forza durante l’ultimo anno, nella stretta della crisi, si sono trasformati in talloni di Achille. La demagogia si è rivelata un’arma spuntata dinnanzi all’aggressione speculativa dei mercati: le promesse spudorate si sono sgonfiate tra le mani e sono state loro rinfacciate dagli elettori. Nel contempo anche il leaderismo, potente arma di semplificazione della lotta politica, si è trasformato in una palla ai piedi: leader appannati e azzoppati sono diventati facile bersaglio del malumore popolare. Insomma, le due formazioni populiste della destra italiana, il populismo mediatico berlusconiano e il populismo etno-escludente bossiano, hanno imboccato la parabola discendente nella stretta della crisi economica.

2 – Il governo formato dai due partiti della destra populista è stato dimissionato: al suo posto sono subentrati Monti e i tecnici. Non per questo la pressione populista si è dissolta nell’aria. La Lega e il Pdl restano ancora in campo, sia pure con traiettorie politiche al momento differenziate: l’una all’opposizione e l’altra in appoggio al governo Monti. Difficile oggi dire che esito avranno i tentativi dei due partiti di ridefinire strategia e immagine politica. Alle elezioni amministrative di primavera i consensi che Lega e Pdl hanno perso per strada sono finiti o nell’astensione o hanno ingrossato le fila di un’altra formazione populista, il Movimento Cinque Stelle guidato dal comico Beppe Grillo. Di certo nella nostra opinione pubblica continuano a sedimentare, o forse perfino si stanno allargando, disaffezione e insofferenza per il sistema politico e apprezzamento per scorciatoie e suggestioni demagogiche. Le ragioni che alimentano questa persistente e inquietante minaccia populista meritano di essere meditate attentamente. Il fenomeno, notoriamente, non è solo italiano: nessun paese europeo ne è immune. In Italia esso assume però una continuità e un’aggressività particolare. Con ogni probabilità al fondo di questo fenomeno inquietante vi è proprio la povertà e la debolezza della politica. Da tempo essa ha perso la capacità di rappresentanza e l’autorevolezza per indicare dove andare. Tutto ciò si è ulteriormente accentuato durante questi anni di crisi: la politica “responsabile” sa dire solo che bisogna “rassicurare i mercati”. Si tratta di un mantra ripetuto ossessivamente, cui devono corrispondere inesorabilmente tutte le essenziali scelte politiche. Proposte e ricette politiche sono fissate dalla potentissima tecnostruttura globale. Essa non ha nessuna legittimazione democratica ed è composta, generalmente, dalle stesse persone che hanno portato il mondo verso la crisi. Eppure i governi e le forze politiche devono semplicemente applicare e adattare ai vari contesti nazionali gli orientamenti e le decisioni fissate dagli organismi che presiedono alla finanza e all’economia globale. Essi parlano a un tempo il linguaggio della ragionevolezza e della inesorabilità: sono generosi di buoni consigli, ma anche inflessibili, perfino spietati (alla Grecia hanno perfino chiesto di abbattere il salario minimo!). Essi indicano una sola strada possibile, non accettano oscillazioni e defezioni, ma lo dicono sempre con tatto e con garbo. Non ricorrono mai a minacce: se qualcuno non segue i loro consigli incorrerà - purtroppo, aggiungerebbero - nella punizione di un soggetto impersonale, i “mercati”. Questi nuovi signori del mondo sono affabili e sorridenti, vestono perfino in casual, come quelli che nei giorni scorsi, dopo aver parcheggiato i propri jet personali, si sono incontrati in una località di vacanza dell’Idaho per un seminario di lavoro. Semplicemente, essi ribadiscono a ogni passo che non ci sono margini per sfuggire alla loro volontà. È inesorabile che tutto ciò alimenti uno sconcerto e un fastidio diffuso e che a lungo andare provochi la ribellione della “piccola gente”. Proprio come accadde nell’America a cavallo tra Ottocento e Novecento quando l’arroganza e lo strapotere dei nuovi “baroni” provocò la rivolta populista dei piccoli proprietari agrari. Fu quella la prima protesta populista nel mondo occidentale: essa ricorda e contiene alcuni aspetti dell’ondata populista che si sta formando nel nuovo mondo globale.

3 – La politica sembra stretta in una morsa tra la spietata ragionevolezza imposta della super - élite globale e la confusa e inconsulta protesta populista. Lo scenario al momento sembra occupato solo da due narrazioni, quella potente dell’élite tecno – globale e quella arruffata e semplificatoria della protesta populista. Il punto essenziale sta proprio qui, ovvero se è possibile allentare questa morsa paralizzante e soffocante. Le forze “responsabili” sono schiacciate in un’identificazione innaturale con la super – élite globale: sembrano costrette ad accettare e applicare ogni suggerimento e orientamento della tecnostruttura economico – finanziaria globale. Ogni tanto qualche scatto di dignità come, qui in Italia, con una legge su lavoro meno indecente di quanto richiesto, ma il tutto sempre di rimbalzo, tra mille remore, incertezze e preoccupazioni. Nulla che lasci intravedere un’altra lettura della crisi, un’altra griglia di priorità, un altro discorso. Serve qualcosa di più. Bisogna ritrovare la capacità di declinare assieme responsabilità e cambiamento. In altre parole, è urgente mettere in campo un’altra narrazione, un altro logos, inteso - suggerisce Mauro Magatti nel suo ultimo saggio – come la “capacità di raccogliere (e legare/ legein) attorno a un filo … la molteplicità delle esperienze”, di “trascendere e integrare i frammenti in una direzione”. In poche parole, servirebbero forze responsabili, ovvero “non populiste”, capaci di indicare altri obiettivi e un altro percorso. Mentre l’élite globale ripete ossessivamente che bisogna “rassicurare i mercati” servirebbe uno scarto, a un tempo radicale e ragionevole, per fissare altre finalità. È l’accavallarsi stesso dei problemi ad indicarci le due idee centrali attorno a cui ricostruire un altro ragionamento: democrazia e bene comune. Esse appaiono come il nucleo di un’altra possibile narrazione, di un altro logos con cui costruire una griglia di scelte e di priorità. “Democrazia”, innanzitutto. Essa subisce un grave vulnus quotidiano proprio in quell’Europa dove vengono prese le decisioni più importanti in modo opaco, in organismi privi di legittimazione democratica. Da qui una possibile stringente conclusione operativa: accantonare le discussioni sulla riforma della Costituzione italiana che si trascinano in modo inconcludente da vent’anni e spostare tutta la discussione sull’impossibilità di continuare a operare in un’Europa dove c’è una moneta senza uno stato e dove operano poteri ultrapotenti senza la cornice di una Costituzione democratica. “Bene comune” è un concetto antico, tanto e forse perfino più di quello di democrazia. Anch’esso però sta tornando di prepotente attualità proprio perché minato nei suoi presupposti: esso è stato buttato fuori dal discorso pubblico nella convinzione che l’autoregolamentazione dei mercati rendesse superfluo pensarlo e costruirlo. I mercati, si è argomentato con una virulenza che non accettava obiezioni, sono in grado di garantire “naturalmente” le migliori soluzioni possibili. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Proprio per questo “bene comune” oggi è un obiettivo che ritorna, da ridefinire e riconquistare. Esso implica un’azione lunga e tenace per riportare sotto controllo quei “mercati” che sembrano essersi autonomizzati dalla volontà umana e fanno gravare sul nostro orizzonte una minaccia permanente di instabilità e insicurezza. Nel contempo esso richiede il coraggio di riproporre e ripensare le questioni del legame sociale e del sistema di protezione: isolamento e solitudine sono le minacce più inquietanti che stanno corrodendo il nostro tessuto sociale. Detto in altre parole, si tratta di optare per una “bussola umanistica” con cui costruire giorno per giorno un’altra narrazione, con cui spezzare la falsa alternativa tra il razionalismo disumanizzante dell’élite globale e la pericolosa e inconcludente reazione populista. Con la speranza che un nuovo discorso umanistico renda possibile anche riassorbire - almeno in parte - quegli umori populisti nei quali, in forme non di rado perfino allarmanti e minacciose, si convogliano motivi reali di inquietudine e di disagio.

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